lunedì 20 luglio 2009

Sweeney Todd







Sweeney Todd
di Tim Burton
anno 2008
durata 117' - colore







Ed ecco l'ennesima evoluzione-rivoluzione di Tim Burton. Finalmente dopo diverso tempo sono riuscito a vedere Sweeney Todd e devo ammettere di essere rimasto piacevolmente sorpreso dalla pellicola. Avevo letto pareri contrastanti in merito ma, a mio modesto parere, questo è un gran bel film. Intrigante la trama, ben sceneggiato, ben diretto e ottimamente interpretato.
Tim Burton, ispirandosi all'omonima opera teatrale datata 1979, in questo suo film prende spunto a piene mani da vari generi cinematografici,letterari e musicali, partendo da Dickens e Twain, passando per Shakespeare, arrivando a Rossini. Si, esatto, Rossini il musicista. Sweeney Todd è un musical, genere che si credeva estinto ormai da tempo, in cui le reminiscenze del barbiere di Siviglia sono forti e in cui alcune caratteristiche dei drammi Shakespeariani emergono con prepotenza, soprattutto nella parte finale della pellicola.
Benjamin Barker è un barbiere nella Londra ottocentesca. Barker è felicemente sposato con una bellissima donna, da cui ha avuto una figlia, ma la cui bellezza finisce per attirare le attenzioni di un corrotto giudice di nome Turpin. Il giudice è disposto a tutto pur di ottenere la sua preda e, approfittando del potere di cui è investito, fa ingiustamente arrestare il barbiere Barker, mandandolo in esilio. Quindici anni dopo il povero barbiere, che nel frattempo ha mutato il suo nome in Sweeney Todd, ritorna a Londra, deciso a consumare la propria vendetta. Tramite l'aiuto di una "cuoca" locale riesce a riaprire la propria attivita', con lo scopo di riuscire a tagliare la gola all'odiato giudice, ma nell'attesa della vendetta suprema, decide di rifarsi del torto subito sulla popolazione locale. Entra cosi' in una spirale di omicidi, con scopi non propriamente di giustizia...
In questa pellicola i ruoli del buono e del cattivo si mescolano in continuazione, anzi si puo' dire che non esista nessuno propriamente buono e nessuno decisamente cattivo, in un susseguirsi di situazioni paradossali che spesso strappano anche una risata. Infatti Burton, nel suo tipico habitat cupo e lugubre, non abbandona mai l'aspetto grottesco della propria cinematografia e spesso sembra di trovarsi in una sorta di commedia degli equivoci piena zeppa di globuli rossi.
Depp nella parte del folle è perfettamente a suo agio, coadiuvato da una Helena Bonham Carter decisamente brava nel fornire il puntello sul quale si muove il protagonista. Ottima anche la prova del bambino che impersona il tuttofare dei due.
Bellissime le musiche che compongono la struttura portante del film, con dei meravigliosi intrecci vocali che rendono l'atmosfera ancora piu' suggestiva e particolare, anche se il dover seguire i sottotitoli in italiano per poter comprendere i dialoghi finisce per distrarre un po' lo spettatore dalla visione. L'ideale sarebbe conoscere bene l'inglese e poter fare a meno dei sottotitoli.
Infine una menzione speciale va alle sempre splendide scenografie di Dante Ferretti che, seppure abbondantemente aiutato dal computer, crea delle atmosfere davvero stupende. Le riprese leggermente azzurrate fanno il resto, portando l'umore generale delle pellicola verso il cupo quando serve e ridando luce al tutto nei momenti piu' delicati.
Insomma, un gran bel film da gustare tanto con gli occhi quanto con l'udito.

giovedì 16 luglio 2009

Fabrizio De Andrè - Creuza de Ma







Fabrizio De Andrè
"Creuza de Ma"
Anno 1984
durata 33:36









Etichettare "Creuza de Ma" come "l'undicesimo album di Fabrizio De Andrè" è estremamente riduttivo. In realtà è molto di più: è un viaggio che puoi portare sempre con te quando lo vuoi. E con lui tutto il suo carico di emozioni. Mai in nessun altro lavoro discografico che ha come tema principale "il mare" si ha la sensazione di riuscire a percepire l'odore pungente della salsedine e il moto delle onde, senza rischiare di incappare in alcun malore.
Pubblicato nel 1984, "Creuza de Ma" ha dato il via a quel filone musicale denominato "World-Music", anticipando nei tempi una pietra miliare del genere come "Graceland" di Paul Simon. Nato dalla collaborazione di De Andrè con Mauro Pagani (polistrumentista, arrangiatore e compositore militante nella PFM), "Creuza" ha la forza di riuscire a descrivere in maniera emozionante e coinvolgente la realtà del Mediterraneo, grazie anche all'aiuto del dialetto genovese, presente in tutte le canzoni che vanno a comporre il disco. La scelta della lingua è stata molto importante non solo perchè risulta essere coraggiosa, in quanto andava contro tutte le leggi del mercato discografico di allora, ma anche per il carico culturale che il dialetto portava con sé. Grazie ad esso, infatti, il disco sembra quasi prendere i contorni di un vero e proprio reportage fatto da un giornalista nel porto e per le strade di Genova in pieno Medioevo.
Questa sensazione la si può riscontrare già nella "title-track" che apre il disco. "Creuza de Ma" (la stradina collinare che abitualmente delimita i confini di proprietà e porta verso il mare) è un racconto incentrato sulla figura dei marinai che tornano a casa e che hanno la sensazione di sentirsi quasi estranei e facenti parti di un viaggio senza fine, in cui le brevi parentesi sulla terra ferma sono fonte di tristezza e rassegnazione. La canzone si apre con un bellissimo assolo di "Gaida", strumento simile alla cornamusa utilizzato solitamente dai pastori, che spalanca le porte ad una splendida melodia, molto semplice ma di indescrivibile impatto.
Si prosegue con "Jamin-a", canzone dalla forte sensualità, che non a caso assume i connotati di un' ode in musica ad una prostituta. Il tema arabeggiante è molto forte, sottolineato anche dall'utilizzo di strumenti a corde molto in uso in quelle zone.
La traccia successiva, "Sidùn" (Sidone, città libanese tristemente nota per la sanguinosa Guerra Civile che la colpì tra il 1975 e il 1991) è la canzone che personalmente preferisco dell'intero album. Musicalmente perfetta con il suo incedere triste, che nel finale lascia spazio ad un canto corale sottolineato da un cambio di registro strumentale a dir poco commovente, la canzone descrive il dolore di un genitore che perde il figlio a causa della guerra. Sicuramente uno dei pezzi più belli mai scritti da De Andrè, soprattutto per la sua forte valenza pacifista.
"Sinàn Capudàn Pascià" è la reale storia di un marinaio fatto prigioniero dai Mori durante uno scontro navale e successivamente nominato Pascià per aver salvato il Sultano da morte certa. Al contrario di "Sidùn", questa è una traccia, musicalmente parlando, estremamente "allegra" con il suo ritmo incalzante, fatto di percussioni e dei soliti strumenti a corda di matrice mediterranea.
I due pezzi successivi, "A Pittima" e "A Dumenega", sono specchi della classica vita nell'antica Genova, rappresentati rispettivamente dall'esattore di debiti che racconta la sua triste vita, condotta in condizioni precarie, e dalle "solite" prostitute a cui la domenica veniva concessa dal comune genovese la libera uscita per una semplice passeggiata lungo le vie del capoluogo ligure.
Il disco si conclude con la splendida "Da A Me Riva", che "chiude il cerchio" aperto dall'iniziale "Crueza de Ma". Infatti la canzone affronta la storia del marinaio che, dovendo riprendere il suo infinito viaggio, saluta con un toccante canto la sua innamorata, che lo guarda allontanarsi tristemente dalla riva del porto di Genova. Il dolce cantare di De Andrè è accompagnato dalle semplicissime note della sua chitarra, che riescono a dipingere la scena precedentemente narrata con estrema precisione.
Per quanto mi riguarda è stato molto faticoso "raccontare" a parole un album che di parole te ne lascia ben poche ad ascolto concluso. Perchè le parole a volte risultano essere noiose e retoriche e "Creuza de Ma" non merita certo una descrizione del genere. Allora perchè farlo? Perchè spingersi ad affrontare questo arduo compito? La risposta, cari ragazzi, è fin troppo scontata. Intraprendere un viaggio splendido e ricco di sorprese come questo, "a mie spese", ne vale la pena...Faber ne sarebbe felice. E io sono sicuro che voi lettori sarete ottimi compagni d'avventura!


lunedì 13 luglio 2009

La notte eterna del coniglio - Giacomo Gardumi







La notte eterna del coniglio
di Giacomo Gardumi
anno 2003
Marsilio editore
pagine 417 - euro 9,50










Perchè, Gardumi, perchè??
Se mai ti troverai a passare da queste pagine, per favore, abbi la gentilezza di rispondere alla mia domanda!
Perchè rovinare quello che poteva essere un ottimo romanzo con un finale talmente scontato, banale e melenso?
Mi ero quasi illuso che per una volta un italiano si fosse spinto un po' oltre il muro del cliché, creando un romanzo in cui la paura è psicologica ed inspiegabile, seppur coadiuvata da delle buone scene horror.
Mi ero quasi illuso che l'atavica tendenza allo spiegone finale fosse scongiurata e invece...a pagina 356 tutto crolla...
Tranquilli, non rivelerò di cosa si tratta, ma sappiate che sono molto deluso per quello che poteva essere e invece non è stato.
“La notte eterna del coniglio” è l'opera prima di Giacomo Gardumi ed è un romanzo ambizioso, quasi una controtendenza nel panorama italiano.
La terra è stata quasi completamente distrutta da un olocausto nucleare e solo 4 nuclei familiari sono riusciti a sopravvivere all'apocalisse, nascondendosi in altrettanti bunker antiatomici costruiti in giardino che hanno la possibilità di dialogare tra loro attraverso un satellite.
Tutto sembra scorrere tranquillo nell'anormale normalità, finchè uno di questi nuclei inizia a sentire dei colpi cadenzati sul portellone di accesso.
L'umanità è stata spazzata via, cosa altro può essere a cercare un contatto con i sopravvissuti? E perchè soprattutto?
Le telecamere esterne non rivelano nessuna presenza umana.
Esatto, umana.
Sarà un enorme coniglio rosa a penetrare in un bunker e compiere un orrendo massacro.
Chi è questo enorme pupazzo e perchè decide di distruggere le ultime forme di vita umana presenti sul pianeta?

Non lasciatevi ingannare dalla figura del pupazzo con le lunghe orecchie rosa, tra l'altro già utilizzato come idea dal film Donnie Darko.
E' solo una metafora ben riuscita.
Il romanzo nel suo sviluppo è davvero ottimo, riesce a creare un'atmosfera di paura e terrore giocando sull'aspetto psicologico, su quello che potrebbe accadere da un momento all'altro senza peraltro riuscire a capire il perchè tutto ciò debba succedere.
E' un'atmosfera malata che coinvolge, una spirale di terrore che va man mano aumentando, creando un climax perfetto che sembrerebbe portare ad un finale adeguato a tutta la vicenda.
E invece no.
La voglia di osare termina qui.
Uno spunto geniale non basta se poi ci si lascia risucchiare dal gorgo della banalità, non può bastare questo per parlare di capolavoro.
E ve lo dico con grandissimo rammarico: poteva esserlo senza problemi.
Gardumi dimostra di saper scrivere davvero bene, oltre che riuscire a trasporre magistralmente su carta delle intuizioni malate e claustrofobiche.
E' inutile ripetermi, ormai avete capito la sostanza del mio giudizio.
Un capolavoro mancato.

mercoledì 8 luglio 2009

White Lies "To Lose My Life"





White Lies
"To Lose my Life"
Anno 2009
Durata 44:51







C'era un'epoca in cui ogni cosa sembrava viver di vita propria e da dove fantasia e originalità uscivano spontanee...

C'è stata pure un'epoca in cui a qualsiasi pischello, che sapesse suonare una chitarra (purché abbastanza tormentato e magari con qualche problema di dipendenza), veniva concessa visibilità sui migliori “schermi”.

Come dite? I cliché della seconda sembrano esser ancora qui con noi?

Può essere.

Magari è solo la mia percezione delle cose che è cambiata ma, in tempi in cui certi simboli di Ribellione (maiuscola non casuale) fanno a gara per rendersi ridicoli (tra Reality e spot per RC Auto...), la definizione di “ribelle” è del tutto labile: quella di originalità un pò meno, ma solo perché decisa dal critico del momento... (brutti tempi quelli in cui la Critica diventa una forma d'Arte).

La (mia) "verità" è, che a 6 mesi dalla fine degli anni “0”, dobbiamo rassegnarci a considerare questa decade (a parte qualche rara eccezione) come il trionfo del revival più becero, soprattutto se, come mi capita di leggere sempre più spesso, i gruppi più rappresentativi di essa finiscono con essere eletti gli Strokes ed i White Stripes (io continuo a sperare che certi soloni della Critica tra qualche anno cambino idea, comunque...) e le icone del disagio giovanile Doherty e la Winehouse (si salvi chi può: ci credo che qualcuno continui a cercar “vita” su Marte...).

Si, dobbiamo abituarci al fatto che, ora come ora, dobbiamo accontentarci di chi (secondo i nostri gusti) copia meglio (e anche da dove, ovvio...).

I White Lies non sono originali (per nulla: chi dice che sono dei cloni degli Echo and the Bunnymen ha ragione), non sono neanche mediaticamente troppo interessanti (a dire il vero non ho ancora capito come la stampa di Oltre Manica decida cosa lo è e cosa no...) perché son 4 ragazzoni abbastanza comuni ,provenienti dalla periferia londinese, e non mi risulta abbiano particolari storie di dipendenza: poco da scrivere e ricamarci sopra dunque.

“To Lose my Life” è uscito lo scorso Gennaio ma probabilmente era pronto da un paio d'anni: i nostri hanno aspettato il momento propizio (la scia lasciata dai Killers per esempio) per buttarlo fuori ed intanto hanno lavorato i fianchi del pubblico e dei media con comparsate qua e la, giocando solo su di un paio di singoli (“Death” ed “Unfinished Business”): tattica che li ha visti premiati con il primo posto nella classifica britannica raggiunto poi dal disco.

Forse vi starete chiedendo perché stia parlando di un'operazione e di un disco che puzzano sia di già sentito che di costruito ad arte per lo showbiz...

La risposta è semplice: “To Lose my Life” nonostante tutto è un bel disco: i White Lies dovrebbero pagare i diritti a Joy Division ed ai già citati Echo, per carità (mi piacerebbe sapere però chi non dovrebbe farlo tra i vari gruppuscoli che infestano la nostra epoca), ma, cosa sempre più rara, riesce ad elevarsi rispetto alla media dei coevi (seventies-eighties derivativi) alla Kasabian, Arctic Monkeys etc. etc, per intenderci, se non per le (non) innovazioni, in fase di composizione, almeno per un calore di fondo, che sembra reale e non solo patinato ad uso e consumo di NME et similia, ed una capacità tecnica che ricorda i mai abbastanza, seppur estremamente derivativi anche loro, lodati Editors.

Niente di nuovo sotto il sole quindi ma del sano revival Dark-New Wave riproposto con (fino a prova contraria: aspettiamo il secondo disco...) onestà intellettuale e con quella minima passionalità atta ad essere compatibile con la vita.

Merce sempre più rara in quest'epoca di manichini: copiate ma fatelo con passione per favore.


Rating: 7/10



lunedì 6 luglio 2009

Milk





Milk
USA, 2008
Drammatico; 128' circa

Regia: Gus Van Sant
Cast: Sean Penn, Josh Brolin, Emile Hirsch, James Franco, Diego Luna, Brandon Boyce, Denis O'Hare, Victor Garber






"Per noi non si tratta di obiettivi personali o di vittorie, stiamo cercando di cambiare la nostra vita. Lo capisci Dan? Io ho avuto quattro storie importanti, e tre dei miei uomini hanno tentato il suicidio. Sai che vuol dire?"

Per vedere questo film secondo me è necessaria una piccola documentazione sulla vita di Harvey Milk, ovvero un politico statunitense "militante del movimento di liberazione omosessuale". Fu il primo consigliere a dichiararsi gay, ed ha dedicato gli ultimi anni della sua vita ad una "lotta" che permettesse di avere tutti i diritti spettanti ad ogni essere umano.
Il film racconta in particolare gli ultimi 8 anni di vita di Harvey (Sean Penn), dall'incontro con Scott (James Franco), al loro trasferimento nel 1972 a San Francisco, precisamente a Castro, il "quartiere gay", dove apriranno poi un negozio di fotografia. Harvey divenne ben presto "l'eroe di Castro", finchè non cominciò ad occuparsi degli interessi della comunità, candidandosi a consigliere comunale. Ci vollero più tentativi prima di essere eletto nel 1977. Dovette scontrarsi con la chiusura mentale, con un clima ostile e con altri canditati. Milk si occupò in particolare della cancellazione della "Preposition 6", una proposta che se accettata dagli Stati Uniti, avrebbe portato al licenziamento degli insegnanti gay. Milk è diventato uno degli "eroi" americani, e tutt'oggi viene ricordato con commemorazioni e molto altro.

Prendendo il film come "film e basta", c'è da elogiare sia la bravura di Van Sant, sia la praticamente perfetta somiglianza e bravura di Sean Penn, che pare essersi calato completamente nei panni di Milk. I "personaggi di contorno", anch'essi molto somiglianti, fanno sì che questo film sia una perla vera e propria. Le ambientazioni, i lavori fatti a Castro per farla tornare a 30 anni fa... tutto è stato curato nei minimi particolari. Mi sono andata a vedere, successivamente alla visione, le foto di Harvey e dei suoi amici e collaboratori, e tutto è praticamente uguale.

Un film ben riuscito, su un personaggio amato non soltanto dalla comunità gay ma da tutti coloro che credono nell'uguaglianza e nei diritti che spettano ad ogni essere umano.

Note: Il film ha avuto 8 canditature ai Premi Oscar 2009; ne ha vinti 2: miglior attore protagonista (Sean Penn), migliore sceneggiatura originale (Dustin Lance Black); alcuni link sul film, biografia in italiano, biografia in inglese.






If a bullet should enter my brain,
let the bullet destroy every closet door.

venerdì 3 luglio 2009

Margherita Dolcevita






Margherita Dolcevita
di Stefano Benni
Economica Feltrinelli
anno 2005
pagine 208 - euro 5,62









Stefano Benni è entrato nelle mie grazie con il suo ultimo “La grammatica di Dio”, un libro di racconti, genere che non amo particolarmente, ma è riuscito a conquistarmi subito,trascinandomi in una lettura apparentemente leggera,perché divertente e bizzarra, ma al contempo stuzzicante e geniale.
Margherita Dolcevita è voce narrante e protagonista di una storia appassionante e tragicomica. Una quattordicenne cicciottella e riccioluta a dir poco stravagante che attraverso una fantasia esilarante trova la giusta grinta per affrontare le difficoltà tipiche(e non) di una “bambina in scadenza”, come lei stessa si definisce. Vive in una casa immersa nel verde non ancora contaminato dalla città, assieme alla sua bislacca famiglia: Papà Fausto che raccatta e ripara gli oggetti più inutili convinto che persino le cose abbiano un’anima; mamma Emma, casalinga a tempo pieno e fumatrice delle Virtual, sigarette immaginarie; Giacinto diciottenne brufoloso e ultrà di una squadra di calcio perdente e il fratello minore Erminio, considerato il genio della famiglia. In soffitta vive il saggio nonno Socrate che si imbottisce di piccole dosi di cibo avariato e liquidi di ogni genere per essere preparato ad un eventuale avvelenamento;con il contorno di due compagni di giochi originali:il fedele cancatalogo Pisolo “perché più che un incrocio è veramente un catalogo di tutte le razze canine e animali e forse vegetali apparse sulla Terra” e la Bambina di polvere,angelo custode e amichetta immaginaria.
Conoscendo Benni la stramberia dei personaggi,di cui ho solo fatto un accenno,non mi ha stupito, infatti è solo l’inizio di una serie di stranezze e curiose vicende.La serenità della famiglia e l’eccentrica routine vengono minacciate dall’arrivo dei nuovi vicini, i Del Bene, una ricca e misteriosa famiglia, fautrice di modernità e progresso tecnologico.
Improvvisamente Margherita assiste alla disgregazione del suo mondo quasi incantato.
Tutto attorno a lei cambia al contatto con la novità.
La ragazzina tutto pepe,però, non rimane inerme e non si fa imbambolare dalle tattiche corruttive dei suoi nuovi vicini, che di positivo hanno soltanto il cognome. La storia cambia decisamente tono con risvolti inaspettati e Margherita diventa una sorta di eroina-detective.
Una piacevole storiella di poco conto?Tutt’altro.
E’ il perfetto connubio fra comicità e denuncia che rendono unici e interessanti le storie e lo stile di Benni,che stimola astutamente la sensibilità e la riflessione del lettore su temi caldi e attuali. Riesce sempre a spiazzare con dialoghi spiritosi e giochi di parole strabilianti,servendosi di aneddoti spesso ingenui ma accattivanti, senza mai dover ricorrere alla volgarità di cui siamo ormai assuefatti.
Eppure fra una risata e l’altra Benni descrive ingegnosamente la realtà piena di marcio che ormai ci appartiene, evidenziando i compromessi a cui scendiamo per raggiungere un paradiso fatto sì di notorietà, lusso e benessere, ma reso infernale da una sorta di omologazione umana a dir poco spaventosa. E chi prova a ribellarsi al reclutamento di un tale esercito mondano, viene additato come strano o addirittura come anormale..
Io faccio il tifo per Margherita e per le poche eroine riamaste che riescono ancora a perdersi in un buon libro o a stupirsi di fronte allo spettacolo che Madre Natura ci offre, riuscendo così a preservare l’originalità e l’unicità che contraddistingue ognuno di noi. Un hip hip urrà anche per questo scrittore nostrano che consiglio di leggere almeno una volta, poi sarà difficile smettere!