domenica 27 dicembre 2009

Moon





Moon
USA, 2009
Drammatico, fantascienza; 95'

Regia: Duncan Jones
Cast: Sam Rockwell, Kevin Spacey (voce), Dominique McElligott, Kaya Scodelario, Malcolm Stewart, Robin Chalk, Matt Berry, Benedict Wong





In un futuro forse non troppo lontano, le risorse per mandare avanti il nostro pianeta arrivano dalla Luna. Sam (interpretato da uno splendido Sam Rockwell), è l'astronauta incaricato di controllare che tutto, sulla Luna, proceda sotto controllo. Il suo contratto di tre anni è quasi giunto al termine: mancano solo due settimane al suo ritorno sulla Terra, dove potrà riabbracciare la moglie e la figlia. Durante una ricognizione sul territorio lunare, Sam ha un incidente dovuto ad un'allucinazione. Si sveglia successivamente nell'infermeria, con dei piccoli vuoti di memoria, tra le quali proprio non ricordare come essere giunto alla base dopo l'incidente. Il suo amico-robot Gerty (la cui voce nella versione originale è data da Kevin Spacey) ha l'obbligo di non farlo uscire dalla base, ma con uno stratagemma Sam riuscirà a tornare sul luogo dell'incidente, fino a scoprire una terribile verità... e non vado avanti per evitare spoilers che potrebbero rovinarvi la visione del film!
Facendo un occhiolino - forse due - a 2001 Odissea nello Spazio, il regista Duncan Jones (per chi non lo sapesse si tratta del figlio di David Bowie), ci regala un (quasi) ottimo film, probabilmente uno dei migliori del 2009; considerando che si tratta inoltre del primo lungometraggio girato da Jones, direi che è partito col piede giusto. E' un film di fantascienza, sì, ma non aspettatevi astronavi, alieni, spade laser e ritmi vivaci: se lo è, è "soltanto" perché il protagonista si trova in una base spaziale sulla Luna. Il protagonista è il personaggio su cui ruota tutto: un ottimo Sam Rockwell (uno degli attori più sottovalutati al mondo, fatemelo dire) regge praticamente da solo tutta la baracca; il suo personaggio emerge grazie al suo lato psicologico, a quello che deve affrontare tutto da solo, mentre i suoi cari sono lontanissimi, senza avere la possibilità di parlarci direttamente ma mandando solo messaggi - senza avere la certezza che arrivino a chi di dovere. Il suo unico "amico" è un robot che a tratti ricorda il caro e vecchio Hal9000, dotato di sentimenti che esprime attraverso emoticons.
Sequenze lunghe e ritmi che a molti potrebbero sembrare lenti completano la bellezza di questo film, una perla che è passata in sordina (ma va?), ma che merita la visione. Non è perfetto, ma io metterei la firma per avere almeno tre film così all'anno. Un applauso. Anzi, due...

martedì 8 dicembre 2009

The Dome - Stephen King








The dome
di Stephen King
Sperling & Kupfer editore
pagine 1037 - euro 23,90









L'ultimo mio libro letto di Stephen King risaliva a ben 10 anni fa, poi un volontario esilio...
Quando ho sentito dell'uscita di questo ultimo lavoro, dal promettente titolo “The dome”, ho voluto dare una seconda chance al pazzoide del Maine!
Che dire...
Non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine!
Spunto intrigante e ritmi serratissimi, personaggi che non vedi l'ora di ammazzare con le tue stesse mani dopo orrendi lavoretti medievali a base di saldatore e fil di ferro, finale più o meno all'altezza delle aspettative.
Insomma, un po' tutto quello che ci si aspetta da un buon libro di genere (soprattutto il discorso sui personaggi...)!
Una cittadina del Maine (ma guarda un po'...) dal nome Chester's Mill finisce non si sa per quale oscura ragione sotto una cupola piovuta dal cielo.
Tutto quello che c'e' al di sotto della cupola rimane inesorabilmente isolato dal resto del mondo.
Dopo lo sbigottimento iniziale, I 2000 abitanti della ridente cittadina si abituano alla situazione, ma non si rassegnano all'orribile destino che si prospetta.
Immaginate di essere sotto una cupola con centinaia di automobili, di generatori a propano e di altri non trascurabili fattori inquinanti.
Chiaro il concetto?
Benissimo, perchè questo sarà il male minore.
Immaginate ora duemila persone che iniziano ad essere a corto di cibo, che sono in balia di loro stessi senza possibilità di intervento dall'esterno e che devono sottostare alle smanie di potere di un corrotto ciccione che vede la disgrazia accaduta come il modo di diventare l'imperatore assoluto di cupolandia...
Perfetto, ora ci siete.
Aggiungete una spruzzata di visioni catastrofiche a base di uomini in fiamme e spaventapasseri dal ghigno beffardo occorse a poveri malcapitati e avrete il quadro completo.
Stephen King è un bel volpone e quindi utilizza questo bello spunto di partenza per costruire una vicenda in cui in realtà accade ben poco, ma quello che accade è ciò che deve succedere. Senza scampo.
E' come guardare con una lente di ingrandimento ciò che capita ad un gruppo di formiche intrappolate in un bicchiere.
Una sorta di grande fratello in salsa catastrofista.
L'aspetto vincente del romanzo è la scioltezza di scrittura dell'autore, che riesce abilmente a tratteggiare situazioni classiche della propria produzione, ma che si spingono questa volta ad un'analisi ancora piu' approfondita della psiche dei personaggi coinvolti, E non può essere altrimenti in un romanzo che si svolge completamente in un ambiente chiuso ed in cui non c'e' spazio per chissà quali soluzioni narrative.
Il libro è un bel volumone da 1040 pagine che scorrono via che è un piacere, rispecchiando quella che era la volontà di King di scrivere un romanzo con il pedale dell'acceleratore pigiato fino in fondo.
Direi quindi che è un'opera consigliata, indipendentemente che amiate Stephen King o meno ed in cui troverete ben più di ciò che ci si possa aspettare all'inizio.


giovedì 3 dicembre 2009

Pearl Jam - Backspacer







Pearl Jam
Backspacer
anno 2009
durata 36:00










"Se la coerenza è una virtù nessun'altra

band suona così fedele ai suoi ideali."




Ho voluto iniziare questa recensione con una citazione presa in prestito da un giornale, perchè non c'è nulla di meglio che queste parole a riassumere la carriera, il presente, il futuro e il credo dell'intera vita musicale dei Pearl Jam.
Dopo quasi 20 anni passati sulla cresta dell'onda, gli unici sopravvissuti del movimento "Grunge" danno alle stampe un nuovo album che, se vogliamo, sorprende per la sua estrema compattezza e qualità, merito anche dell'eccellente ritorno di Brendan O'Brien alla produzione.
Un disco immediato e senza fronzoli (il più breve come durata dell'intera carriera del gruppo di Seattle) che colpisce per una buona varietà di stili, grazie anche alla comparsa di strumenti che raramente facevano la loro comparsa nelle passate produzioni del quintetto americano.
Si passa dall'inizio energico di "Gonna See My Friend" e "Got Some" (quest'ultima con un incedere del basso di Jeff Ament molto new-wave) che marcano un pò la direzione dell'intero album, per arrivare a quello che è stato scelto come il singolo per il lancio mondiale dello stesso: "The Fixer" è un pezzo piuttosto anomalo nel catalogo dei Pearl Jam che ad un ascolto iniziale può sembrare anche piuttosto banale ma che in un secondo momento colpisce per la sua semplicità e gioiosità, merito soprattutto delle sue atipiche venature pop.
Si prosegue con "Johnny Guitar", titolo che può trarre in inganno. Ci si aspetta una canzone con citazioni ai Ramones e invece si ascolta un buon brano di rock classico con accordi iniziali che possono ricodare i Rolling Stones. Da sottolineare l'ottima prova vocale di Vedder (standard che mantiene in tutto il disco: una sicurezza) e il sempre chirurgico Matt Cameron, batterista d'altri tempi.
Si arriva al primo capolavoro del disco. "Just Breathe" è di una bellezza disarmante, ricca di dolcezza, pathos e tenerezza sottolineata dalla presenza di una sezione d'archi che, con la chitarra e la voce di Vedder, "dipingono" un quadro a dir poco emozionante. Da notare come si percepisca in maniera forte l'influenza della passata esperienza del cantante nella colonna sonora di "Into the Wild". Non poteva mancare il tributo di Eddie Vedder al mare in "Amongst the Waves", canzone che sembra un tributo ai R.E.M. (d'altronde tutto il nuovo lavoro della band sembra un intero tributo alla musica da loro amata in gioventù). Brano buono ma forse il più debole della compagnia.
Le successiva "Unthought Known" è un ottimo brano, strumentalmente semplice ma piuttosto trascinante, grazie anche al crescendo che porta ad un intermezzo potente, dove si può apprezzare la presenza di Brendan O'Brien, che contribuisce al pezzo con un superlativo apporto al pianoforte. "Supersonic" è la canzone selvaggia che in un disco dei Pearl Jam non può mai mancare. Questa sì è un tributo ai Ramones (era quasi nell'aria), ma che sorprendentemente è ad opera di Stone Gossard e non di Vedder come ci si poteva aspettare. Il chitarrista fa sempre il suo con diligenza e precisione.
Il momento adrenalinico è spezzato da "Speed of Sound", buona ballata rock come solo i Pearl Jam sanno fare oramai, ma che si apprezza di più nella versione "demo", spogliata di tutti gli strumenti e interpretata da Eddie Vedder con la sola chitarra acustica e qualche sovraincisione di slide-guitar e controcanto. Il rock classico torna a far capolino nella successiva "Force of Nature" ad opera di Mike McCready, chitarrista solista che dà sempre i suoi ottimi contributi ai lavori del gruppo e che sembra quasi l'alter-ego scatenato del più compassato Stone Gossard. In questo brano si possono apprezzare reminiscenze del miglior Neil Young, con cui i Jam in passato hanno anche collaborato.
E si arriva così alla degna conclusione del disco, altro capolavoro del Vedder solista. "The End" è un pezzo che è quasi un pugno allo stomaco. Ma non come ci si potrebbe aspettare. Questo brano colpisce per la sua atmosfera pacata e "drammatica", con il cantante che è protagonista di un'interpretazione meravigliosa e struggente, riuscendo a spingere la voce quasi ai limiti del possibile. Anche qui sono presenti solo gli archi a far da cornice alla sola chitarra acustica. Da spendere una parola per il testo che è davvero pura poesia. Molto toccante.
Per concludere, i problemi se vogliamo sono sempre gli stessi. Molta gente rimarrà perplessa all'ascolto. Riecheggiano ancora nella mente dei più nostalgici le urla sfrenate di Vedder dei primi tempi, difficili da scordare. Ma chi è dotato di un pò di coscienza capirà che i tempi passano e il corpo ne risente. Ma l'anima dei Pearl Jam è sempre lì ed è una delle poche certezze rimaste nel panorama rock attuale. Chi si vuole abbandonare ai ricordi Ten è sempre lì sullo scaffale, chi vuole maturare ed appassionarsi assieme a loro stringa un pò i cd già in possesso e lasci un pò di spazio al futuro.
"Everything has changed, absolutely nothing change!"

mercoledì 25 novembre 2009

New Moon




The Twilight Saga: New Moon
USA, 2009
Romantico, drammatico; 120' circa


Regia: Chris Weitz
Cast: Kristen Stewart, Robert Pattinson, Taylor Lautner, Ashley Greene, Peter Facinelli, Elizabeth Reaser, Kellan Lutz, Nikki Reed, Jackson Rathbone, Bronson Pelletier, Alex Meraz





Parto premettendo due cose: 1) il mondo intero mi ha veramente rotto le palle con la saga di Twilight, con foto, immagini, scene di isterismo collettivo, vampiri pacco e "giornali di cinema" che sono diventati "giornali su Twilight" e chi più ne ha e più ne metta... 2) Twilight mi aveva fatto veramente tazza.
Ieri sera, convinta dalla compagnia, mi reco al cinema pensando che sto per buttare via 7 euro nel peggiore dei modi, pronta a sentire urla isteriche delle fangirls al primo battito di ciglia di Edward oppure al primo accenno del pettorale di Jacob... ed il risultato qual è? Che, pur rimanendo convinta che quei 7 euri potevo usarli in altro modo, New Moon mi ha convinto più del primo orribile film. Sarà il cambio di regia, o la maggior azione (ma nemmeno troppa)... non so. A metà film non ero ancora addormentata, e nè avevo voglia di alzarmi gridando "al fuoco, al fuoco!" per svegliare dal coma i poveri fidanzati delle teenagers in love.
Eravamo rimasti dove? Che lei, quella splendida attrice, e lui, il vampiro con i glitters, stavano insieme, innamorati come nei migliori romanzi rosa. Succede che poi lei, durante la festa del suo 18° compleanno, si taglia un dito. La macchiettina di sangue scatena un vampiro ed Edward, per difenderla, quasi le spacca un braccio... no, aspettate, volevo dire: ...Edward ed il resto dei Cullen cercano di proteggerla e di calmare l'altro vampiro. Successivamente lui molla lei (che da brava attrice non fa una piega)... poi salta fuori che Jacob, l'uomo che odiava le magliette, è un licantropo, e quindi... aaah basta, che noia mortale, cristo.
Ci sono delle cose positive, tipo che Edward (che effettivamente si vede poco nel film) è comunque un bel figliolo (però nani, un po' di spessore magari?), qualche chicca tipo il passare dei mesi che possiamo notare attraverso una finestra (non che comunque si possa urlare alla novità del secolo), oppure gli effetti speciali che, grazie alla schermata ed al sonoro del cinema, fanno tremare un attimo i piedi... per il resto ci troviamo davanti ad un polpettone romantico, da far ululare le ragazze nella file davanti di dietro di fianco. Sui Volturi c'è poco da dire: tanto rompimento di palle di qui e di là, con l'Italia protagonista eccetera per una scena di, uhm, 10 minuti? L'unico personaggio che mi dice veramente qualcosa è Alice Cullen, che si è presa pure un mio applauso quando ha fatto una battuta su Jacob (quanto odio sto pallone gonfiato).

In conclusione: rimango convinta che questa saga abbia un target d'età basso (e lo dico io che a 25 anni suonati ho pianto leggendo l'ultimo libro di Harry Potter... ehm...), che abbia poco spessore e che sia taaanto lagnosa...

Sempre W Dracula!

lunedì 16 novembre 2009






Una questione privata
di Beppe Fenoglio
Einaudi Super ET
anno 2006
pag 129- euro 10,50







Beppe Fenoglio è noto a molti come il più importate scrittore della Resistenza italiana grazie al suo capolavoro “Il partigiano Johnny”.Pochi sanno, però, che la sua è una ricca bibliografia, quasi sempre ispirata dalla lotta partigiana a cui lo scrittore stesso ha partecipato attivamente nelle Langhe Piemontesi. Ed è proprio tra le colline e le valli nei pressi di Cuneo che scorre “Una questione privata”, un breve ma intenso romanzo.
Milton è uno studente universitario timido e bruttino che trascorre interminabili pomeriggi in compagnia di Fulvia, la ragazza di cui è innamorato. Siamo nel novembre del 1944 in una villetta della piccola cittadina Alba, dove Fulvia si è rifugiata da Torino per scampare ai bombardamenti del conflitto mondiale. Per i due giovani la guerra è ancora solo un’impercettibile eco sopraffatta dalla musica proveniente dall’instancabile grammofono che, quando si ferma, viene rimpiazzato dalla voce del ragazzo che legge ad alta voce e traduce le poesie dei grandi della letteratura inglese per allietare Fulvia. La magia dell’amore adolescenziale svanisce con la partenza in guerra di Milton, che presto si unisce alle brigate partigiane.
Nelle prime pagine del racconto appare Milton partigiano e armato ,in piedi davanti alla villa ormai abbandonata di Fulvia che dice “Sono sempre lo stesso,Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto…Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.” Il passato amoroso e il futuro turbolento del ragazzo viaggiano sullo stesso binario attraverso una serie di avvincenti flashback. Dopo una conversazione con la governante di Fulvia il giovane è tormentato dal sospetto che la ragazza durante la sua assenza abbia intrattenuto una relazione con il loro amico Giorgio, il più bello e ricco ragazzo di Alba. L’insidiosa pulce nell’orecchio spinge il ragazzo a una disperata e affannosa ricerca di Giorgio, partigiano come lui e unico custode della verità, forse terribile, ma sicuramente più misericordioso dell’assillante dubbio. L’amore mascherato di accecante gelosia induce Milton a una fuga estenuante, effettiva protagonista del racconto, ricca di avventure intrise di suspense che porta a un finale atipico che la critica ha considerato aperto o addirittura incompleto. Il lettore, invece, viene catapultato nel disagio delle notti insonni fra le montagne, fra il rischio di agguati mortali e mine anti-uomo, nella sofferenza della fame, del freddo, della mancanza di igiene, nella convivenza forzata con la paura. Sullo sfondo brillanti descrizioni di paesaggi, personaggi, incontri, stati d’animo frutto di uno stile scorrevole ma denso e di una spiccata sensibilità. Tale sensibilità a volte viene meno, come nelle asettiche descrizioni e negli spietati dettagli di atti crudeli, di esecuzioni capitali non sempre giustificati dal tremendo “mors tua vita mea”. Per quanto tutto possa far pensare a un’atmosfera faziosa, in realtà nel racconto non spiccano i partigiani e i fascisti, non esiste il nemico né l’alleato, non c’è un’indagine a posteriore sul giusto e sbagliato, non si arriva neanche a parlare di vincitori e sconfitti. Il libro è popolato da uomini, esseri umani, giovani nel pieno della vita, che muoiono fagocitati come pedine dall’unico male incurabile ed eterno: la guerra, qualunque essa sia. E ai romantici superstiti all’ambientazione bellicosa, vorrei far notare che proprio l’invocazione di Milton sopraccitata dimostra che, nonostante l’orrore in cui sia costretto a vivere, il giovane partigiano rimane un ragazzo innamorato.

venerdì 13 novembre 2009

Fever Ray "Fever Ray"


Fever Ray
Fever Ray

anno 2009

durata 48.02


Stilettate gelide ma avvolgenti: così si può definire l'ascolto di un qualsiasi disco dei The Knife duo elettronico svedese che in questi anni “0” è stato tra le più interessanti espressioni prodotte dalla musica sintetica a livello internazionale.
Nel 2009 la metà femminile del duo (Karin Dreijer Andersson) ha deciso di produrre qualcosa di completamente suo: il risultato è il progetto Fever Ray e l'omonimo disco uscito lo scorso Marzo.

Oltre ai The Knife la Andersson negli ultimi anni ha prestato la sua voce, graffiante ma capace di evoluzioni suadenti, pure a gruppi come dEUS e Röyksopp e, forse, proprio grazie alla collaborazione con quest'ultimi le deve esser venuta la scintilla Fever Ray: con il gruppo norvegese, infatti, già condivideva una certa attitudine nel ricercare commistioni tra l'Ambient Downtempo ottantino (alla Art of Noise per intendersi) britannico e la novantina Bristol Scene, con l'aggiunta di un sound cristallizzato in suoni gelidi tipico dell'elettronica del grande nord europeo, ma la novità rispetto alle precedenti collaborazioni è un'interessante ricerca di esperienze appartenenti a ben altre latitudini: nulla di “estivo”, per carità, qui si rimane sempre e ampiamente sotto lo zero ma qua e la spuntano ritmi tiepidi che provocano un'interessante esperienza dicotomica con il restante ambiente subpolare.

Con la fine degli anni 90 i resti fossili del Trip-Hop sono diventati ingombranti creature atte a rivitalizzare spot pubblicitari e/o allietare eventi mondani e, pur rimanendo il prodotto musicale più (e scusate la parolaccia) seminale di quegli anni in ben pochi al di fuori della cerchia (forse il solo Chris Corner, che comunque non ne era propriamente estraneo, con il progetto IAMX) originale son riusciti a ricavarne frutti di un sapore non solo derivativo: ascoltando “Fever Ray” ed immergendosi nel suo panorama dominato dal synth e da chitarre ultra effettate un deciso sterzare appare evidente e fluttuando tra nebbie e cristalli sonori fragilissimi la sensazione di aver trovato una via alternativa al Glamour in cui il genere s'era pericolosamente infilato negli ultimi anni appare evidente.

Il resto è un albeggiare di freddi soli boreali dopo scure notti nordiche: averne paura sarebbe un peccato.

Rating: 8,5/10

domenica 18 ottobre 2009

Nei boschi eterni - Fred Vargas








Nei boschi eterni
di Fred Vargas
anno 2007
pagine 391 - euro 15,80







E' bello ogni tanto trovarsi di fronte a qualcosa che ti faccia esclamare: “Finalmente!!!”.
Dopo aver letto qui e la commenti entusiastici sulle opere di Fred Vargas (onestamente pensavo fosse un uomo...brutta l'ignoranza....), era arrivato il momento di testare con il mio cervellino...
E la scelta è caduta, casualmente ma non troppo, su questo “Nei boschi eterni”.
Non so che farci, quando leggo di fantasmi, misteri semi-esoterici e vergini squartate, si accende la spia che in me è stata forgiata da anni di Quentin Tarantino...
A parte gli scherzi, questo romanzo nulla ha a che fare con gli eccessi del buon zio Quentin, ma al contrario è molto discreto sotto l'aspetto puramente horrorifico, basando lo sviluppo su quel detto non detto, su quegli equivoci che ti conducono verso qualcosa che potrebbe essere ma che in realta' è.
Ok ok, vi spiego in qualche riga di cosa parla il libro...
Il commissario Adamsberg decide di cambiare vita, di dare un taglio netto al passato e si trasferisce in una lugubre casa sulle colline francesi. Talmente lugubre che pare essere infestata dal fantasma di una monaca che aveva l'innocuo passatempo di sgozzare alcuni poveri malcapitati nel 1700...
Ma in realtà questo è l'ultimo dei problemi del sagace commissario, che ben presto si troverà a dover indagare sull'uccisione barbara di alcuni cervi da parte di un maniaco che ne asporta I cuori e sulla profanazione delle tombe di alcune giovani vergini morte in maniera violenta.
Ma le morti sono state davvero casuali?
Ben presto il quadro verrà a comporsi in un mistero ancora più ampio e fitto, in cui troveranno posto un collaboratore del commissario che ama parlare in versi e in un testo medievale che pare in grado di regalare la vita eterna...

Allora, cari miei giovani lettori, che ne dite??
Al posto mio non sareste stati attratti da una siffatta macchinazione in stile Evangelisti, condita con spruzzate di Conan Doyle e guarnita con colpi di Bram Stoker??
Io si.
Ognuno ha le sue debolezze...
Il libro è terribilmente ben scritto, con gli intrecci ben orchestrati e lasciati li a frollare (piu' che altro sarete lasciati voi a frollare...) per ricomparire qualche pagina dopo piu' fitti di prima, a volte ribaltati, a volte confermati ed ampliati nei contenuti.
Gli specchietti per le allodole si sprecano...
Ma l'aspetto che maggiormente colpisce è la perfetta caratterizzazione dei personaggi, con il commissario Adamsberg in primo piano.
Non è un poliziotto classico, come spesso se ne vedono in giro, ma ha quel qualcosa in più che lo rende adorabile, quasi bambinesco in certi modi di fare, ma terribilmente diretto e preciso nello scardinare il mistero ben celato sotto lastre di granito.
Non da meno sono I personaggi di contorno, ma che poi tanto contorno non sono, spesso oscurando persino il personaggio principale.
Il resto del lavoro è compiuto da ambientazioni che danno al mistero quel tocco esoterico che la semplice caratterizzazione dei personaggi non puo' dare.
Che dire, io sono rimasto colpito.
Le pagine volano e si leggono con quella facilità e fluidità che solo le storie ben orchestrate sanno regalare.
Leggetelo e se non vi piace verrete rimborsati da Doublethink...(ehm ehm...ci stava bene ma non prendetelo in parola...).

lunedì 20 luglio 2009

Sweeney Todd







Sweeney Todd
di Tim Burton
anno 2008
durata 117' - colore







Ed ecco l'ennesima evoluzione-rivoluzione di Tim Burton. Finalmente dopo diverso tempo sono riuscito a vedere Sweeney Todd e devo ammettere di essere rimasto piacevolmente sorpreso dalla pellicola. Avevo letto pareri contrastanti in merito ma, a mio modesto parere, questo è un gran bel film. Intrigante la trama, ben sceneggiato, ben diretto e ottimamente interpretato.
Tim Burton, ispirandosi all'omonima opera teatrale datata 1979, in questo suo film prende spunto a piene mani da vari generi cinematografici,letterari e musicali, partendo da Dickens e Twain, passando per Shakespeare, arrivando a Rossini. Si, esatto, Rossini il musicista. Sweeney Todd è un musical, genere che si credeva estinto ormai da tempo, in cui le reminiscenze del barbiere di Siviglia sono forti e in cui alcune caratteristiche dei drammi Shakespeariani emergono con prepotenza, soprattutto nella parte finale della pellicola.
Benjamin Barker è un barbiere nella Londra ottocentesca. Barker è felicemente sposato con una bellissima donna, da cui ha avuto una figlia, ma la cui bellezza finisce per attirare le attenzioni di un corrotto giudice di nome Turpin. Il giudice è disposto a tutto pur di ottenere la sua preda e, approfittando del potere di cui è investito, fa ingiustamente arrestare il barbiere Barker, mandandolo in esilio. Quindici anni dopo il povero barbiere, che nel frattempo ha mutato il suo nome in Sweeney Todd, ritorna a Londra, deciso a consumare la propria vendetta. Tramite l'aiuto di una "cuoca" locale riesce a riaprire la propria attivita', con lo scopo di riuscire a tagliare la gola all'odiato giudice, ma nell'attesa della vendetta suprema, decide di rifarsi del torto subito sulla popolazione locale. Entra cosi' in una spirale di omicidi, con scopi non propriamente di giustizia...
In questa pellicola i ruoli del buono e del cattivo si mescolano in continuazione, anzi si puo' dire che non esista nessuno propriamente buono e nessuno decisamente cattivo, in un susseguirsi di situazioni paradossali che spesso strappano anche una risata. Infatti Burton, nel suo tipico habitat cupo e lugubre, non abbandona mai l'aspetto grottesco della propria cinematografia e spesso sembra di trovarsi in una sorta di commedia degli equivoci piena zeppa di globuli rossi.
Depp nella parte del folle è perfettamente a suo agio, coadiuvato da una Helena Bonham Carter decisamente brava nel fornire il puntello sul quale si muove il protagonista. Ottima anche la prova del bambino che impersona il tuttofare dei due.
Bellissime le musiche che compongono la struttura portante del film, con dei meravigliosi intrecci vocali che rendono l'atmosfera ancora piu' suggestiva e particolare, anche se il dover seguire i sottotitoli in italiano per poter comprendere i dialoghi finisce per distrarre un po' lo spettatore dalla visione. L'ideale sarebbe conoscere bene l'inglese e poter fare a meno dei sottotitoli.
Infine una menzione speciale va alle sempre splendide scenografie di Dante Ferretti che, seppure abbondantemente aiutato dal computer, crea delle atmosfere davvero stupende. Le riprese leggermente azzurrate fanno il resto, portando l'umore generale delle pellicola verso il cupo quando serve e ridando luce al tutto nei momenti piu' delicati.
Insomma, un gran bel film da gustare tanto con gli occhi quanto con l'udito.

giovedì 16 luglio 2009

Fabrizio De Andrè - Creuza de Ma







Fabrizio De Andrè
"Creuza de Ma"
Anno 1984
durata 33:36









Etichettare "Creuza de Ma" come "l'undicesimo album di Fabrizio De Andrè" è estremamente riduttivo. In realtà è molto di più: è un viaggio che puoi portare sempre con te quando lo vuoi. E con lui tutto il suo carico di emozioni. Mai in nessun altro lavoro discografico che ha come tema principale "il mare" si ha la sensazione di riuscire a percepire l'odore pungente della salsedine e il moto delle onde, senza rischiare di incappare in alcun malore.
Pubblicato nel 1984, "Creuza de Ma" ha dato il via a quel filone musicale denominato "World-Music", anticipando nei tempi una pietra miliare del genere come "Graceland" di Paul Simon. Nato dalla collaborazione di De Andrè con Mauro Pagani (polistrumentista, arrangiatore e compositore militante nella PFM), "Creuza" ha la forza di riuscire a descrivere in maniera emozionante e coinvolgente la realtà del Mediterraneo, grazie anche all'aiuto del dialetto genovese, presente in tutte le canzoni che vanno a comporre il disco. La scelta della lingua è stata molto importante non solo perchè risulta essere coraggiosa, in quanto andava contro tutte le leggi del mercato discografico di allora, ma anche per il carico culturale che il dialetto portava con sé. Grazie ad esso, infatti, il disco sembra quasi prendere i contorni di un vero e proprio reportage fatto da un giornalista nel porto e per le strade di Genova in pieno Medioevo.
Questa sensazione la si può riscontrare già nella "title-track" che apre il disco. "Creuza de Ma" (la stradina collinare che abitualmente delimita i confini di proprietà e porta verso il mare) è un racconto incentrato sulla figura dei marinai che tornano a casa e che hanno la sensazione di sentirsi quasi estranei e facenti parti di un viaggio senza fine, in cui le brevi parentesi sulla terra ferma sono fonte di tristezza e rassegnazione. La canzone si apre con un bellissimo assolo di "Gaida", strumento simile alla cornamusa utilizzato solitamente dai pastori, che spalanca le porte ad una splendida melodia, molto semplice ma di indescrivibile impatto.
Si prosegue con "Jamin-a", canzone dalla forte sensualità, che non a caso assume i connotati di un' ode in musica ad una prostituta. Il tema arabeggiante è molto forte, sottolineato anche dall'utilizzo di strumenti a corde molto in uso in quelle zone.
La traccia successiva, "Sidùn" (Sidone, città libanese tristemente nota per la sanguinosa Guerra Civile che la colpì tra il 1975 e il 1991) è la canzone che personalmente preferisco dell'intero album. Musicalmente perfetta con il suo incedere triste, che nel finale lascia spazio ad un canto corale sottolineato da un cambio di registro strumentale a dir poco commovente, la canzone descrive il dolore di un genitore che perde il figlio a causa della guerra. Sicuramente uno dei pezzi più belli mai scritti da De Andrè, soprattutto per la sua forte valenza pacifista.
"Sinàn Capudàn Pascià" è la reale storia di un marinaio fatto prigioniero dai Mori durante uno scontro navale e successivamente nominato Pascià per aver salvato il Sultano da morte certa. Al contrario di "Sidùn", questa è una traccia, musicalmente parlando, estremamente "allegra" con il suo ritmo incalzante, fatto di percussioni e dei soliti strumenti a corda di matrice mediterranea.
I due pezzi successivi, "A Pittima" e "A Dumenega", sono specchi della classica vita nell'antica Genova, rappresentati rispettivamente dall'esattore di debiti che racconta la sua triste vita, condotta in condizioni precarie, e dalle "solite" prostitute a cui la domenica veniva concessa dal comune genovese la libera uscita per una semplice passeggiata lungo le vie del capoluogo ligure.
Il disco si conclude con la splendida "Da A Me Riva", che "chiude il cerchio" aperto dall'iniziale "Crueza de Ma". Infatti la canzone affronta la storia del marinaio che, dovendo riprendere il suo infinito viaggio, saluta con un toccante canto la sua innamorata, che lo guarda allontanarsi tristemente dalla riva del porto di Genova. Il dolce cantare di De Andrè è accompagnato dalle semplicissime note della sua chitarra, che riescono a dipingere la scena precedentemente narrata con estrema precisione.
Per quanto mi riguarda è stato molto faticoso "raccontare" a parole un album che di parole te ne lascia ben poche ad ascolto concluso. Perchè le parole a volte risultano essere noiose e retoriche e "Creuza de Ma" non merita certo una descrizione del genere. Allora perchè farlo? Perchè spingersi ad affrontare questo arduo compito? La risposta, cari ragazzi, è fin troppo scontata. Intraprendere un viaggio splendido e ricco di sorprese come questo, "a mie spese", ne vale la pena...Faber ne sarebbe felice. E io sono sicuro che voi lettori sarete ottimi compagni d'avventura!


lunedì 13 luglio 2009

La notte eterna del coniglio - Giacomo Gardumi







La notte eterna del coniglio
di Giacomo Gardumi
anno 2003
Marsilio editore
pagine 417 - euro 9,50










Perchè, Gardumi, perchè??
Se mai ti troverai a passare da queste pagine, per favore, abbi la gentilezza di rispondere alla mia domanda!
Perchè rovinare quello che poteva essere un ottimo romanzo con un finale talmente scontato, banale e melenso?
Mi ero quasi illuso che per una volta un italiano si fosse spinto un po' oltre il muro del cliché, creando un romanzo in cui la paura è psicologica ed inspiegabile, seppur coadiuvata da delle buone scene horror.
Mi ero quasi illuso che l'atavica tendenza allo spiegone finale fosse scongiurata e invece...a pagina 356 tutto crolla...
Tranquilli, non rivelerò di cosa si tratta, ma sappiate che sono molto deluso per quello che poteva essere e invece non è stato.
“La notte eterna del coniglio” è l'opera prima di Giacomo Gardumi ed è un romanzo ambizioso, quasi una controtendenza nel panorama italiano.
La terra è stata quasi completamente distrutta da un olocausto nucleare e solo 4 nuclei familiari sono riusciti a sopravvivere all'apocalisse, nascondendosi in altrettanti bunker antiatomici costruiti in giardino che hanno la possibilità di dialogare tra loro attraverso un satellite.
Tutto sembra scorrere tranquillo nell'anormale normalità, finchè uno di questi nuclei inizia a sentire dei colpi cadenzati sul portellone di accesso.
L'umanità è stata spazzata via, cosa altro può essere a cercare un contatto con i sopravvissuti? E perchè soprattutto?
Le telecamere esterne non rivelano nessuna presenza umana.
Esatto, umana.
Sarà un enorme coniglio rosa a penetrare in un bunker e compiere un orrendo massacro.
Chi è questo enorme pupazzo e perchè decide di distruggere le ultime forme di vita umana presenti sul pianeta?

Non lasciatevi ingannare dalla figura del pupazzo con le lunghe orecchie rosa, tra l'altro già utilizzato come idea dal film Donnie Darko.
E' solo una metafora ben riuscita.
Il romanzo nel suo sviluppo è davvero ottimo, riesce a creare un'atmosfera di paura e terrore giocando sull'aspetto psicologico, su quello che potrebbe accadere da un momento all'altro senza peraltro riuscire a capire il perchè tutto ciò debba succedere.
E' un'atmosfera malata che coinvolge, una spirale di terrore che va man mano aumentando, creando un climax perfetto che sembrerebbe portare ad un finale adeguato a tutta la vicenda.
E invece no.
La voglia di osare termina qui.
Uno spunto geniale non basta se poi ci si lascia risucchiare dal gorgo della banalità, non può bastare questo per parlare di capolavoro.
E ve lo dico con grandissimo rammarico: poteva esserlo senza problemi.
Gardumi dimostra di saper scrivere davvero bene, oltre che riuscire a trasporre magistralmente su carta delle intuizioni malate e claustrofobiche.
E' inutile ripetermi, ormai avete capito la sostanza del mio giudizio.
Un capolavoro mancato.

mercoledì 8 luglio 2009

White Lies "To Lose My Life"





White Lies
"To Lose my Life"
Anno 2009
Durata 44:51







C'era un'epoca in cui ogni cosa sembrava viver di vita propria e da dove fantasia e originalità uscivano spontanee...

C'è stata pure un'epoca in cui a qualsiasi pischello, che sapesse suonare una chitarra (purché abbastanza tormentato e magari con qualche problema di dipendenza), veniva concessa visibilità sui migliori “schermi”.

Come dite? I cliché della seconda sembrano esser ancora qui con noi?

Può essere.

Magari è solo la mia percezione delle cose che è cambiata ma, in tempi in cui certi simboli di Ribellione (maiuscola non casuale) fanno a gara per rendersi ridicoli (tra Reality e spot per RC Auto...), la definizione di “ribelle” è del tutto labile: quella di originalità un pò meno, ma solo perché decisa dal critico del momento... (brutti tempi quelli in cui la Critica diventa una forma d'Arte).

La (mia) "verità" è, che a 6 mesi dalla fine degli anni “0”, dobbiamo rassegnarci a considerare questa decade (a parte qualche rara eccezione) come il trionfo del revival più becero, soprattutto se, come mi capita di leggere sempre più spesso, i gruppi più rappresentativi di essa finiscono con essere eletti gli Strokes ed i White Stripes (io continuo a sperare che certi soloni della Critica tra qualche anno cambino idea, comunque...) e le icone del disagio giovanile Doherty e la Winehouse (si salvi chi può: ci credo che qualcuno continui a cercar “vita” su Marte...).

Si, dobbiamo abituarci al fatto che, ora come ora, dobbiamo accontentarci di chi (secondo i nostri gusti) copia meglio (e anche da dove, ovvio...).

I White Lies non sono originali (per nulla: chi dice che sono dei cloni degli Echo and the Bunnymen ha ragione), non sono neanche mediaticamente troppo interessanti (a dire il vero non ho ancora capito come la stampa di Oltre Manica decida cosa lo è e cosa no...) perché son 4 ragazzoni abbastanza comuni ,provenienti dalla periferia londinese, e non mi risulta abbiano particolari storie di dipendenza: poco da scrivere e ricamarci sopra dunque.

“To Lose my Life” è uscito lo scorso Gennaio ma probabilmente era pronto da un paio d'anni: i nostri hanno aspettato il momento propizio (la scia lasciata dai Killers per esempio) per buttarlo fuori ed intanto hanno lavorato i fianchi del pubblico e dei media con comparsate qua e la, giocando solo su di un paio di singoli (“Death” ed “Unfinished Business”): tattica che li ha visti premiati con il primo posto nella classifica britannica raggiunto poi dal disco.

Forse vi starete chiedendo perché stia parlando di un'operazione e di un disco che puzzano sia di già sentito che di costruito ad arte per lo showbiz...

La risposta è semplice: “To Lose my Life” nonostante tutto è un bel disco: i White Lies dovrebbero pagare i diritti a Joy Division ed ai già citati Echo, per carità (mi piacerebbe sapere però chi non dovrebbe farlo tra i vari gruppuscoli che infestano la nostra epoca), ma, cosa sempre più rara, riesce ad elevarsi rispetto alla media dei coevi (seventies-eighties derivativi) alla Kasabian, Arctic Monkeys etc. etc, per intenderci, se non per le (non) innovazioni, in fase di composizione, almeno per un calore di fondo, che sembra reale e non solo patinato ad uso e consumo di NME et similia, ed una capacità tecnica che ricorda i mai abbastanza, seppur estremamente derivativi anche loro, lodati Editors.

Niente di nuovo sotto il sole quindi ma del sano revival Dark-New Wave riproposto con (fino a prova contraria: aspettiamo il secondo disco...) onestà intellettuale e con quella minima passionalità atta ad essere compatibile con la vita.

Merce sempre più rara in quest'epoca di manichini: copiate ma fatelo con passione per favore.


Rating: 7/10



lunedì 6 luglio 2009

Milk





Milk
USA, 2008
Drammatico; 128' circa

Regia: Gus Van Sant
Cast: Sean Penn, Josh Brolin, Emile Hirsch, James Franco, Diego Luna, Brandon Boyce, Denis O'Hare, Victor Garber






"Per noi non si tratta di obiettivi personali o di vittorie, stiamo cercando di cambiare la nostra vita. Lo capisci Dan? Io ho avuto quattro storie importanti, e tre dei miei uomini hanno tentato il suicidio. Sai che vuol dire?"

Per vedere questo film secondo me è necessaria una piccola documentazione sulla vita di Harvey Milk, ovvero un politico statunitense "militante del movimento di liberazione omosessuale". Fu il primo consigliere a dichiararsi gay, ed ha dedicato gli ultimi anni della sua vita ad una "lotta" che permettesse di avere tutti i diritti spettanti ad ogni essere umano.
Il film racconta in particolare gli ultimi 8 anni di vita di Harvey (Sean Penn), dall'incontro con Scott (James Franco), al loro trasferimento nel 1972 a San Francisco, precisamente a Castro, il "quartiere gay", dove apriranno poi un negozio di fotografia. Harvey divenne ben presto "l'eroe di Castro", finchè non cominciò ad occuparsi degli interessi della comunità, candidandosi a consigliere comunale. Ci vollero più tentativi prima di essere eletto nel 1977. Dovette scontrarsi con la chiusura mentale, con un clima ostile e con altri canditati. Milk si occupò in particolare della cancellazione della "Preposition 6", una proposta che se accettata dagli Stati Uniti, avrebbe portato al licenziamento degli insegnanti gay. Milk è diventato uno degli "eroi" americani, e tutt'oggi viene ricordato con commemorazioni e molto altro.

Prendendo il film come "film e basta", c'è da elogiare sia la bravura di Van Sant, sia la praticamente perfetta somiglianza e bravura di Sean Penn, che pare essersi calato completamente nei panni di Milk. I "personaggi di contorno", anch'essi molto somiglianti, fanno sì che questo film sia una perla vera e propria. Le ambientazioni, i lavori fatti a Castro per farla tornare a 30 anni fa... tutto è stato curato nei minimi particolari. Mi sono andata a vedere, successivamente alla visione, le foto di Harvey e dei suoi amici e collaboratori, e tutto è praticamente uguale.

Un film ben riuscito, su un personaggio amato non soltanto dalla comunità gay ma da tutti coloro che credono nell'uguaglianza e nei diritti che spettano ad ogni essere umano.

Note: Il film ha avuto 8 canditature ai Premi Oscar 2009; ne ha vinti 2: miglior attore protagonista (Sean Penn), migliore sceneggiatura originale (Dustin Lance Black); alcuni link sul film, biografia in italiano, biografia in inglese.






If a bullet should enter my brain,
let the bullet destroy every closet door.

venerdì 3 luglio 2009

Margherita Dolcevita






Margherita Dolcevita
di Stefano Benni
Economica Feltrinelli
anno 2005
pagine 208 - euro 5,62









Stefano Benni è entrato nelle mie grazie con il suo ultimo “La grammatica di Dio”, un libro di racconti, genere che non amo particolarmente, ma è riuscito a conquistarmi subito,trascinandomi in una lettura apparentemente leggera,perché divertente e bizzarra, ma al contempo stuzzicante e geniale.
Margherita Dolcevita è voce narrante e protagonista di una storia appassionante e tragicomica. Una quattordicenne cicciottella e riccioluta a dir poco stravagante che attraverso una fantasia esilarante trova la giusta grinta per affrontare le difficoltà tipiche(e non) di una “bambina in scadenza”, come lei stessa si definisce. Vive in una casa immersa nel verde non ancora contaminato dalla città, assieme alla sua bislacca famiglia: Papà Fausto che raccatta e ripara gli oggetti più inutili convinto che persino le cose abbiano un’anima; mamma Emma, casalinga a tempo pieno e fumatrice delle Virtual, sigarette immaginarie; Giacinto diciottenne brufoloso e ultrà di una squadra di calcio perdente e il fratello minore Erminio, considerato il genio della famiglia. In soffitta vive il saggio nonno Socrate che si imbottisce di piccole dosi di cibo avariato e liquidi di ogni genere per essere preparato ad un eventuale avvelenamento;con il contorno di due compagni di giochi originali:il fedele cancatalogo Pisolo “perché più che un incrocio è veramente un catalogo di tutte le razze canine e animali e forse vegetali apparse sulla Terra” e la Bambina di polvere,angelo custode e amichetta immaginaria.
Conoscendo Benni la stramberia dei personaggi,di cui ho solo fatto un accenno,non mi ha stupito, infatti è solo l’inizio di una serie di stranezze e curiose vicende.La serenità della famiglia e l’eccentrica routine vengono minacciate dall’arrivo dei nuovi vicini, i Del Bene, una ricca e misteriosa famiglia, fautrice di modernità e progresso tecnologico.
Improvvisamente Margherita assiste alla disgregazione del suo mondo quasi incantato.
Tutto attorno a lei cambia al contatto con la novità.
La ragazzina tutto pepe,però, non rimane inerme e non si fa imbambolare dalle tattiche corruttive dei suoi nuovi vicini, che di positivo hanno soltanto il cognome. La storia cambia decisamente tono con risvolti inaspettati e Margherita diventa una sorta di eroina-detective.
Una piacevole storiella di poco conto?Tutt’altro.
E’ il perfetto connubio fra comicità e denuncia che rendono unici e interessanti le storie e lo stile di Benni,che stimola astutamente la sensibilità e la riflessione del lettore su temi caldi e attuali. Riesce sempre a spiazzare con dialoghi spiritosi e giochi di parole strabilianti,servendosi di aneddoti spesso ingenui ma accattivanti, senza mai dover ricorrere alla volgarità di cui siamo ormai assuefatti.
Eppure fra una risata e l’altra Benni descrive ingegnosamente la realtà piena di marcio che ormai ci appartiene, evidenziando i compromessi a cui scendiamo per raggiungere un paradiso fatto sì di notorietà, lusso e benessere, ma reso infernale da una sorta di omologazione umana a dir poco spaventosa. E chi prova a ribellarsi al reclutamento di un tale esercito mondano, viene additato come strano o addirittura come anormale..
Io faccio il tifo per Margherita e per le poche eroine riamaste che riescono ancora a perdersi in un buon libro o a stupirsi di fronte allo spettacolo che Madre Natura ci offre, riuscendo così a preservare l’originalità e l’unicità che contraddistingue ognuno di noi. Un hip hip urrà anche per questo scrittore nostrano che consiglio di leggere almeno una volta, poi sarà difficile smettere!

martedì 30 giugno 2009

Rourke

Rourke
Star Comics
Soggetto e Sceneggiatura: Federico Memola
Disegni: Cosimo Ferri (n. 1), Valentina Romeo (n. 2)
96 pagine
euro 2,70
















Per la prima recensione fumettistica di Doublethink parleremo di Rourke, nuova miniserie Star Comics che con uscite bimestrali ci accompagnerà per due anni esatti. Il primo numero, "Le predilette della luna" è uscito da ormai tre mesi, ad aprile. Il secondo numero, "Le dimore silenziose", uscito a giugno, è ancora disponibile in edicola.
Dublino. Un irlandese considerato da tutti pazzo e disoccupato, in realtà fa un lavoro molto delicato: toglie le maledizioni alla gente e le fa proprie. Già. Rourke, questo il nome del protagonista, assorbe le maledizioni altrui. Poi, grazie a qualche incantesimo, cerca di togliersele di dosso ed eliminarle per sempre. Fantasmi, mostri, qualche intrigo e una storia di fondo che potrebbe occupare tutti e 12 gli albi. Gli ingredienti per una storia interessante ci sono, ma scendiamo un po' più in dettaglio.
Durante le ultime fiere fumettistiche, alla presentazione della miniserie qualcuno ha storto il naso a causa di una dichiarazione dell'autore, Federico Memola, che definiva il suo fumetto " un horror, ma che non fa paura". Scandalo, indignazione e frustazione generale: un horror, "ha da fare paura".
Ma è davvero così? È davvero necessario che un horror sia spaventoso? Che ci costringa a dormire con la luce accesa? Che ci faccia chiudere bene le tapparelle a causa di quel mostro notturno che potrebbe entrare in casa dalle finestre? Le risposte sono molteplici e si potrebbero impiegare pagine intere per dare risposte esaurienti. Sinteticamente, la risposta più ponderata potrebbe essere un diplomatico "Sì e No". Sì, un horror può e deve fare paura. Ma Rourke ha la necessità di fare paura? In questo caso la risposta è No. Perentoria. Decisa. Rourke, come molti suoi cugini bonelli-bonellidi moderni, non è l'essenza horror, non è il paradigma di un genere. È il figlio di un genere, questo sì, ma è soprattutto una commistione. E in quanto commistione, dell'horror prende solo alcuni elementi, ma li affianca ad altro. Al fantasy, innanzitutto.
Federico Memola o lo si ama o lo si odia, ed è per questo che è difficile giudicarlo oggettivamente. Nel panorama bonellide, il suo tocco leggero tendente al fantastico è ormai un marchio di fabbrica. Era difficile pensarlo accostato a un'opera prettamente horror, un'opera che ignorasse la capacità del suo autore di far interagire i personaggi e creare alchimie che funzionano.
Memola ha faticato ad abbandonare la sua passata creatura, Jonathan Steele: prima passa da Bonelli a Star per poter continuare a scrivere del suo bistrattato personaggio. Poi è costretto a chiudere la serie mensile a favore di un paio di speciali all'anno. La magia però continua a farla da padrona, seppur in altre forme e in altri personaggi. E a leggere il mondo iper-magico di "JS parte II" si intravedono alcuni riverberi in Rourke: il popolo antico, le fate, la magia naturale, il sovrannaturale. Insomma, per quanto riguarda l'ambientazione, ci siamo. È ben salda e ha alcuni elementi interessanti, con aspetti che per ora non soddisfano ma che con una oculata gestione potrebbero dare buoni frutti (vedi ad esempio il ruolo della Chiesa nel secondo albo, decisamente poco convincente).
Passando al protagonista, si vede in lui un buon mix di personaggi già noti: un personaggio cupo, un antieroe come molti, un pizzico dello stile narrativo di Jonathan Steele, ma anche alcune somiglianze con Dylan Dog (entrambi indagano l'incubo, sono squattrinati e spesso sono considerati poco più che ciarlatani), con l'unica differenza che, se il londinese creato da Sclavi è totalmente astemio, Rourke è così amante della birra che sono più le pagine in cui è ubriaco di quelle in cui è sobrio.
Però c'è anche altro. Una ben narrata relazione con la figlia, giovanissima ma matura e indipendente, e la presenza costante di un fantasma donna che lo segue ovunque e lo fa sembrare pazzo agli occhi degli sconosciuti.
Ecco, le aspettative dei lettori che si appassioneranno a Rourke non saranno legate a strani e inquietanti mostri; saranno invece legate all'evoluzione del rapporto padre-figlia, ai segreti che sembrano nascondere i personaggi e a quello che -prima di altri- Memola ha inserito nei suoi fumetti: una continuity che sa farsi seguire senza essere opprimente.
Insomma, un buon esordio accompagnato da disegni più che sufficienti. Per il momento la serie paga il debutto e la fatica di rodare i personaggi, ma il futuro, se l'autore manterrà le promesse, si prospetta più che roseo.

lunedì 29 giugno 2009

U2 - No Line on the Horizon






U2
No Line on the Horizon
anno 2009
durata 53:43








L'errore più grosso che la critica musicale possa commettere ogni volta che si parla di una band importante come gli U2 è quello di cercare di spulciare ogni canzone ed ogni nota alla ricerca di qualche eco del passato. Quindi il consiglio che vi posso dare è di ascoltare gli album come amanti della buona musica, senza correre il rischio di farsi otturare le orecchie da tanti pensieri, perchè questo nuovo lavoro della band irlandese è davvero molto buono.
Registrato tra il Marocco, la Francia e l'amata Dublino, "No Line on the Horizon" ha avuto una gestazione particolarmente lunga. La più lunga dell'intera carriera di Bono e soci. Ma dopo essersi dotati di una buona dose di pazienza, i cinque anni di silenzio risulteranno essere un piccolo dettaglio, perchè le canzoni che compongono il 12mo studio album degli U2 posseggono un grado di qualità davvero notevole.
Il particolare che salta all'orecchio dopo il primo ascolto è quello delle atmosfere variegate che si possono trovare all'interno delle canzoni, che riescono a creare, secondo il mio modesto parere da pseudo-grafico, un buon connubio con l'immagine in copertina (opera dell'artista giapponese Hiroshi Sugimoto, intitolata Boden Sea). Molti suoni nuovi e freschi, come non accadeva ormai dai tempi di Pop, risaltano nella composizione delle 11 canzoni, merito soprattutto della partecipazione alla stesura e alla produzione delle stesse della ormai collaudatissima coppia Brian Eno-Daniel Lanois. Un esempio di ciò può essere senza dubbio la "title-track", una buona cavalcata intrapresa tra la sezione ritmica e la chitarra distorta del buon The Edge, che fa da tappeto alla voce di Bono, mai così in forma come in questo album. Le tastiere prese in prestito ai Depeche Mode fanno da apertura a "Magnificent", canzone in pieno stile U2 che ben presto diventerà un nuovo inno per i milioni di fans della band irlandese. Ma i veri capolavori arrivano successivamente, con la bellissima "Moment of Surrender", carica di organi, archi, suoni elettronici e tanto pathos che si distendono per tutti i 7 minuti di durata, e "Unknown Caller", canzone quasi strana per i suoi ritornelli cantati in coro. A completare l'accerchiamento al primo singolo "Get On Your Boots", che quasi stona per la sua estraneità all'interno di tutto il lavoro, ci sono "Fez-Being Born", il momento più sperimentale ed evocativo, a prova del buon momento creativo degli U2, e "Breathe", classico pezzo rock con la chitarra di The Edge in primo piano e un'ottima sezione ritmica, con Adam Clayton mai stato così partecipativo in 30 anni di carriera. La chiusura è affidata a "Cedars of Lebanon", buon pezzo distensivo e degna chiusura dell'album, che ricorda un pò If You Wear That Velvet Dress per le atmosfere che la caratterizzano. Per dovere di cronaca, la scaletta è completata da "I'll Go Crazy If I Don't Go Crazy Tonight" (scelto come terzo singolo dalla band), "Stand Up Comedy" e "White as Snow", che sono trascurabili ma che non stonano all'interno del quadro generale del disco.
In conclusione, "No Line on the Horizon" è un lavoro che soddisferà senza dubbio gli storici ammiratori dei ragazzi di Dublino ma che, a mio parere, non deluderà nemmeno gli appassionati della buona musica Pop-Rock. Certo, i nostalgici che hanno fatto di "The Joshua Tree" un vero e proprio oggetto di culto rimarranno un pò con l'amaro in bocca, ma è altrettanto vero che è sbagliato pretendere da degli agiati 50enni di ripercorrere strade intraprese quando era l'impeto giovanile a condurre la carovana. Questo è senza dubbio l'episodio meglio riuscito dai tempi di "Achtung Baby", e chi ha orecchie per intendere ascolti tranquillamente.

venerdì 26 giugno 2009

X-Men le origini: Wolverine

wolverine


X-Men Origins: Wolverine
USA, 2009
107'; azione, supereroi

Regia: Gavin Hood
Cast: Hugh Jackman, Liev Schreiber, Danny Huston,
Will.i.am, Lynn Collins, Daniel Henney, Kevin Durand, Dominic Monaghan, Taylor Kitsch, Ryan Reynolds, Tahyna Tozzi, Tim Pocock, Patrick Stewart






Generalmente quando vado al cinema non mi carico di aspettative, ma a questo giro era un po' difficile non crearsene, soprattutto per chi come me è appassionata di fumetti e soprattutto degli X-Men. Le potenzialità per questo film c'erano tutte, ma la delusione era dietro l'angolo. Voglio iniziare col dire subito che Wolverine non è un film brutto, credo che i film brutti siano ben altri, ma le premesse per creare una sorta di "capolavoro" (o comunque uno dei meglio film fumettosi) c'erano tutte, ed il risultato è appena sufficiente.
Non si può mostrare l'infanzia di Wolverine in 2 minuti, non si possono sprecare personaggi come Blob (scena ridicola, quella sul ring), Bolt, Emma Frost, per non parlare di Gambit! - uno dei motivi principali per cui attendevo questo film, sia chiaro. Gambit è uno dei personaggi migliori degli X-Men, a mio parere, ed in questo film non è stato sfruttato. Addirittura tempo fa ho letto di un tizio che scriveva "Ma Gambit che potere ha? Di fare il caz** che gli pare?", giusto per farvi capire.
Ma veniamo alla trama: Wolverine vive in Canada con la sua amata, lavorando e cercando la pace interiore. Ma l'arrivo del fratello Sabretooth gli sconvolge la vita: la sua amata viene assassinata, e Wolverine si ritrova a dover scontrarsi - nuovamente - con Stryker; il nostro "supererore" si sottoporrà successivamente all'impianto di adamantio nelle sue ossa, diventando ancora più forte ed ancora più pericoloso. In questo film sembra quasi che invece di mostrare il passato e sviluppare meglio il personaggio di Wolverine, lo stesso sia stato "sottovalutato"; è come se fosse un classico personaggio di contorno, in un film dove effettivamente nessuno è il protagonista. Effetti speciali poco speciali e potenzialità poco sfruttate, hanno creato per gli appassionati un po' di delusione (quasi quasi rimpiango X-Men 3); per tutti gli altri è un piacevole film d'azione.

Gavin Hood potrebbe dire: "sono il migliore in quello che faccio, ma non sempre quello che faccio è piacevole".

Io sono Dio






Io sono Dio
di Giorgio Faletti
anno 2009
527 pagine
euro 20









E dopo qualche anno di assenza dalle librerie, a parte la scialba raccolta di scritti brevi “Pochi inutili nascondigli”, ritorna Giorgio Faletti con il suo “Io sono Dio”.
Ad essere sinceri non nutrivo grosse aspettative, ma mi sono dovuto in parte ricredere, soprattutto grazie ad una prosa semplice ma estremamente fluida e a tematiche che colpiscono sempre nel segno.
Faletti è di sicuro uno scrittore di mestiere e quindi sa come far presa sul pubblico, pur tralasciando qualche imperfezione che poteva essere limata.
Ma di questo parleremo in seguito, intanto diamo un'occhiata alla trama.
Un serial killer sta terrorizzando New York e per farlo decide di non uniformarsi alla massa dei comuni assassini. I suoi metodi non prevedono il corpo a corpo, ma uccisioni di massa, stragi apparentemente senza motivo, ma che in realtà affondano le radici in una delle pagine piu' buie della storia americana: la guerra del Vietnam. Gli Stati Uniti, ancora colpiti e scossi dagli attentati dell'11 settembre del 2001, si ritroveranno ad affrontare un nemico invisibile che potrebbe assumere tanto le forme di un terrorista internazionale, quanto di uno psicopatico senza scrupoli. Per venire a capo della vicenda si affideranno alla detective Vivien Light e ad un fotoreporter dal passato misterioso, che però dimostra di possedere informazioni fondamentali per dipanare la matassa, in particolare una lettera dai contenuti sconvolgenti...
La trama è piuttosto in linea con tante altre opere dello stesso filone letterario e nello svolgimento non dimostra particolari scossoni che la allontanino dai cliché del genere, però Faletti dimostra una scioltezza di prosa davvero notevole, che in alcuni punti ricorda l'ottimo esordio “Io uccido” e che invoglia continuamente a voltare pagina.
Ed è questo il vero punto di forza dell'intera opera.
Quello che pero' lo scrittore astigiano non riesce proprio ad evitare, sono delle lungaggini inutili, delle descrizioni che a volte si spingono troppo in la' senza riuscire a coinvolgere il lettore.
In pratica il romanzo inizia a pagina 200...
Da li in poi la storia fila via liscia come l'olio!
Alcuni personaggi sono tratteggiati decisamente bene, altri un po' meno, ma nel complesso non si avverte nessuna carenza marcata da questo punto di vista. Un po' stucchevoli invece le prevedibili storie di amore, di cui francamente si poteva fare a meno senza intaccare lo svolgimento della vicenda...
Anche il finale non è perfetto, dimostrandosi un po' troppo sbrigativo rispetto al complesso delle informazioni messe in campo dall'autore, che avrebbero meritato miglior sorte.
In conclusione “Io sono Dio” è un buon romanzo, non un capolavoro, che riesce a regalare dei piacevoli momenti e che da un certo punto in poi coinvolge senza mezzi termini.
Se cercate innovazione allo stato puro non è un libro per voi, ma se volete una buona storia che vi intrattenga e poco altro, allora potete farci un pensierino!

giovedì 25 giugno 2009

Start



Ci siamo.
Si parte.
La gestazione è stata un po' più lunga del previsto, ma per diverse buone ragioni.
Creare un blog da zero comporta sempre certe valutazioni, un'organizzazione tanto grafica quanto logistica e soprattutto, come nel nostro caso, un coordinamento tra quelli che saranno i redattori del nostro magazine.
Abbiamo deciso di creare un blog anziché un sito vero e proprio, per avere quell'elemento fondamentale che in questo genere di situazioni è sempre carente, se non nullo: il vostro parere.
E' vero, siamo noi a scrivere, ma i veri protagonisti del nostro magazine sarete voi, cari lettori!
L'interazione sarà un elemento fondamentale.
Ogni parere sarà ben accetto, ogni critica verrà ascoltata e tenuta in considerazione, ogni consiglio sarà il benvenuto.
Non abbiamo presunzione di originalità o di professionalità, per quello ci sono già tanti altri siti più specializzati del nostro, ma vogliamo offrirvi delle recensioni scritte in maniera semplice e comprensibile.
Da degli appassionati per degli appassionati.
Perchè questo siamo.
Appassionati di cinema, musica, libri, fumetti e di ogni forma di espressione.
E seppur nessuno di noi sia un professionista, vi assicuro che ogni cosa sarà scritta innanzitutto col cuore e so per certo che questo lo apprezzerete.
Vorrei infine ringraziare tutti coloro che mi stanno aiutando in questo progetto e che ne saranno la spina dorsale.
Ringrazio Mizza, Captain Howdy, Biulls, Il Glifo, Quadrilatero e T3nshi.
Avrete modo di conoscerli con il passare del tempo, quindi lascerò che a parlare siano i loro articoli e la loro passione.
Grazie.
Si comincia.

Shepp.

martedì 16 giugno 2009

Ci siamo quasi!

Per il fine settimana dovremmo esserci! Stiamo lavorando sulla grafica, visto che i contenuti già sono li, pronti e scalpitanti per essere pubblicati!